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Lavare la spesa, portare pacchi alimentari, isolamenti in hotel: come frenare il Covid-19

Intervista a tutto campo a Raniero Guerra, dirigente dell’Oms, che raccomanda di lavare tutta la spesa, compresi i contenitori, ritiene utile la distribuzione dei pacchi alimentari e la possibilità che alcune persone non facciano la quarantena coi famigliari ma in hotel, raccomanda un buon monitoraggio dei pazienti a casa e difende le scelte dell’Oms e dell’Italia

di Lara Ricci

Coronavirus, la spesa a domicilio per evitare assembramenti

11' di lettura

Come ci si protegge dal nuovo coronavirus? La spesa va lavata e disinfettata? Le mascherine davvero non servono ai comuni cittadini? È il momento che la protezione civile distribuisca pacchi alimentari nei comuni più colpiti (almeno a chi è in quarantena e ai vecchi)? I malati tenuti a casa andrebbero monitorati almeno fornendogli misuratori di ossigeno? Come cercare di arginare l'epidemia in Italia? Come evitare che si riproduca in tutto il mondo una situazione come quella italiana? Ci sono stati degli errori fatti da chi doveva vigilare, informare, decidere e organizzare: l'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e il governo italiano in primis? E se sì come rimediare? Molte domande si affollano nella testa degli europei in quarantena.

Abbiamo allora cercato delle risposte intervistando Raniero Guerra, membro della squadra di direzione dell'Oms, responsabile delle iniziative speciali, con un passato all'Istituto Superiore di Sanità e al ministero degli Esteri italiano.

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Ad oggi, con la gran parte dei cittadini europei confinati nelle quattro mura delle loro case, Guerra ritiene non sia stato un errore sconsigliare la chiusura dei collegamenti con la Cina o altre forme di contenimento quando l'epidemia è stata dichiarata: «Il virus avrebbe attraversato i confini comunque. È un virus subdolo, i sintomi appaiono solo due settimane dopo, non si può arrestare solo diluire».

Appunto... Secondo Guerra questa misura non sarebbe stata efficace neanche a rallentare il contagio: «bloccare i voli non serve, ci si può spostare in molti altri modi. Lo screening di popolazione è quello che serve, cercare di identificare persone potenzialmente infette, misurando ad esempio la febbre».

Ma questo ha senso quando le persone sono infettive molti giorni prima di mostrare i sintomi?

«Gli studi sulla ricostruzione filogenetica dei movimenti del virus mostrano che questo è arrivato in Europa ben prima e in maniera silente. In quel momento le condizioni epidemiche erano diverse, una maggiore comprensione del virus l'abbiamo avuta solo dopo».

Davvero non si conosceva abbastanza del virus? Eppure allora i cinesi avevano già adottato misure di contenimento strettissime. Forse i cinesi non avevano trasmesso all'Oms le informazioni in loro possesso?
«No, molto semplicemente negli altri Paesi non c'era l'evidenza epidemica. Nel momento in cui c'è stata la dichiarazione di emergenza sanitaria internazionale da parte dell'Oms probabilmente si sarebbero dovute prendere misure conseguenti drastiche, ma qui c'è un problema di accettabilità sociale. Bisogna convincere la gente a rispettare determinati comportamenti».

Se condo lei la Cina ha violato le International Health Regulations non riferendo prontamente e adeguatamente la scoperta del nuovo virus?
«A me non risulta che non l'abbia riportata,ci sono stati ritardi determinati dalla struttura amministrativa e burocratica del Paese, ma mi sembra che l'amministrazione centrale si sia mossa con estrema decisione e con molta tempestività».

Osserviamo però che settimane prima della comunicazione ufficiale del governo cinese c'erano state le denunce dei medici (alcune tramite i social) - medici che in alcuni casi sono scomparsi insieme a giornalisti che si occupavano del Sars-CoV2 i cui video si trovano ancora in rete. E che inizialmente il governo cinese non ha confermato la trasmissione interumana, né ha detto che il virus fosse particolarmente contagioso e mortale, anche se nel frattempo prendeva misure molto severe per contenerlo. «È stato quello che è stato» dice Guerra.

Secondo lui «la comunicazione tra la Cina e l'Oms è stata molto forte, subito il direttore generale è andato in Cina per sincerarsi della situazione. I ritardi, sa - non facciamo i complottari - quelli che sembrano ritardi sono determinati dal fatto che quando accade qualcosa del genere l'evidenza, la numerosità, la pericolosità di quello che avviene va diagnosticata. In maniera certa se le misure da applicare sono draconiane. C'è inevitabilmente un ritardo temporale che non è dovuto alla disattenzione, ma semplicemente all'evoluzione epidemica e alla capacità di diagnosi e di interpretazione dei dati. Mi pare che la Cina si sia comportata in modo lineare. Quelle dei medici e dei giornalisti scomparsi sono notizie di seconda o terza mano. Non lo so, non sono stato in Cina, non so se ci sia stata lei».

Eppure c'è stato l'esempio di Taiwan, di cui nessuno parla, e che dovrebbe essere preso a modello per come ha gestito l'epidemia. Questo Paese ha infatti dato ascolto ai singoli medici cinesi che avevano lanciato l'allerta. Ha così reagito prontamente, il 31 dicembre, tre settimane prima che le autorità cinesi e l'Oms informassero sulla trasmissione umana di un nuovo coronavirus, prendendo una serie di misure riferite sul «Journal of the American Medical Association». Nonostante le centinaia di migliaia di taiwanesi che lavorano in Cina, Taiwan se l'è cavata fino ad ora con 250 casi confermati e due morti (secondo i dati di Worldometers, i dati Oms non sono disponibili perché l'Oms ha sposato la linea cinese e non lo riconosce come Stato).

«L'analisi di quel che appartiene ai singoli Paesi appartiene ai singoli Paesi – risponde Guerra -, ci sono definizioni di caso e definizione di morte che qualche volta vengono rispettati e qualche volta interpretati a livello nazionale. Qualcuno si è mosso rapidamente per questioni di vicinanza e di evidenza, qualcuno più lentamente per questioni di lontananza e di mancanza di evidenza. Inoltre il contesto asiatico è diverso da quello europeo o africano».

Cosa pensa della cosiddetta “strategia” dell'immunità di gregge, che alcuni Paesi hanno pensato di adottare? E che prove ci sono che un'immunità a questo virus possa essere sviluppata?
«È troppo presto per capire quanto duri l'immunità, se ci possano essere recidive, e se ci possono essere reinfezioni. Ci sono stati alcuni casi probabilmente di recidiva. Io ho qualche problema etico ad accettare di aspettare il maturare di un'immunità di gregge. Non mi pare corretto eticamente e professionalmente esporre la popolazione a questo tipo di rischio, pagando dazio per acquisire un'immunità collettiva con la morte selettiva di alcune fasce della popolazione. Ovviamente se avessimo un vaccino il discorso cambierebbe».

Ma dunque, non essendoci prove che si possa effettivamente diventare immuni a questo virus, pensa che abbia senso continuare a parlare di questa “strategia” ?
«Io non ci farei molto affidamento. Andrei verso misure di mitigazione e contenimento. Sono particolarmente preoccupato delle situazioni in cui il virus si diffonde in ambiente urbano, dove il distanziamento sociale è molto difficile da realizzare».

L'Oms suggerisce che, se una persona è in buona salute, non ha bisogno di indossare una maschera a meno che non debba occuparsi di un malato. La raccomandazione sarebbe la stessa se ci fossero più mascherine a disposizione?
«La raccomandazione rimane quella. Così come resta uguale la raccomandazione di mantenere un metro di distanza (minimo) l'uno dall'altro».

Guerra risponde che l’indicazione resta questa anche quando gli citiamo uno studio pubblicato sul “New England journal of medicine” abbia mostrato la persistenza del virus in aerosol per diverse ore.

Alla richiesta di quali studi mostrassero che un metro di distanza fosse sufficiente a prevenire il contagio, Guerra spiega che non ci sono studi specifici per questo virus ma solo studi sulla distanza che le goccioline contenute nel respiro possono percorrere.

Ma questa distanza protegge anche se il virus permane in areosol per alcune ore?
«La possibilità di areosolizzazione si ha in ambiente ristretto, non all'aperto, questa sicuramente è un pericolo potenziale. E infatti c'è una raccomandazione specifica che riguarda gli operatori sanitari che vengono a contatto con strumentazione e microambienti dove questo può avvenire e che prevede l'uso della mascherina. Credo stia per uscire in proposito un'informativa dell'Istituto superiore di Sanità. Non è un rischio prevalente, ma è presente. E a mio parere la tutela dell'operatore sanitario deve essere assoluta, anche in presenza di un rischio minimo».

La tutela dovrebbe essere assoluta per ogni persona. Sta agli Stati orientarsi su una scelta di massima prudenza o meno.
«Dal mio punto di vista ci deve essere massima prudenza» .

Ma perché allora l'Oms non suggerisce alla popolazione sana l'uso della mascherina mentre vediamo i cinesi che sono stati così bravi a spegnere i loro focolai farne un uso massiccio, esteso a tutta la popolazione?
«Dipende da come vengono maturate le decisioni, dal consenso sociale. La mascherina è molto accettata nella cultura asiatica da prima dell'epidemia. Nella nostra cultura invece dobbiamo dare spiegazioni chiare che siano basate su qualcosa di provato».

Così si è arrivati al paradosso italiano in cui persino gli operatori sanitari si sono trovati a corto di mascherine, pagandone in molti casi il prezzo con la vita. In uno studio pubblicato su «The Lancet» giorni fa da Shuo Feng e altri, a proposito dell'uso della mascherina si legge che «c'è una distinzione essenziale tra l'assenza di prove che sia protettiva e la prova che non lo sia».
«La mascherina serve molto ai pazienti perché impedisce che possano disseminare le goccioline contaminate. Invece, riguardo al rischio di essere contaminati, la mascherina chirurgica, serve semplicemente a ridurne la probabilità (mentre quelle che si usano in ambiente ospedaliero sono veramente protettive)».

Ma se la mascherina la portassero tutti, compresi quelli che non hanno sintomi ma sono infettivi, oltre a ridurre la probabilità che il singolo si infetti, non si ridurrebbe anche il rischio di propagare l'infezione?
«Non è che una persona che cammina normalmente spande virus a piene mani. Ci vogliono starnuti e tosse».

Il respiro non è un areosol?
«No. E’ sufficiente stare distanti e lavarsi le mani, visto che la contaminazione delle superfici è possibile».

A noi risulta che il respiro sia un areosol e, come si legge nell’articolo scientifico, che i ricercatori abbiano proprio voluto ricreare un areosol simile a quello del respiro di un uomo infetto.

Che cosa fare ad esempio con la spesa, va lavata?
«Ritengo utile lavare tutto quanto»

Compresa
, ad esempio, la bottiglia del latte prima di metterla sul tavolo.
«Sì, certo».

E il pane ad esempio, può essere contaminato?
«Le rispondo alla stessa maniera in cui ho risposto quando mi hanno chiesto se l'asfalto si contamina. L'asfalto si contamina se qualcuno ci sputa sopra e qualcun altro va a leccare lo sputo. Sono evenienze improbabili».

Ma i bambini piccoli si mettono in bocca qualunque cosa.
«Stiamo parlando di raccomandazioni generali che fanno anche uso del buon senso delle persone. Le norme di igiene generale non vengono superate da quelle specifiche che riguardano il coronavirus. Rimangono valide comunque. Penso che la gente non sia stupida».

Sul come lavare, o cosa lavare o cosa si debba fare con il pane, Guerra non ha voluto fornire altre informazioni richieste.

Crede sia corretto non fare tamponi ai possibili malati e non mettere in quarantena tutti contatti di una persona malata? In Lombardia infatti le persone sintomatiche spesso non sono testate e dunque i loro contatti non sono stati messi in quarantena.
«A me sembra siano stati messi in quarantena tutti, non mi pare ci siano eccezioni se non quelle previste dai servizi essenziali».

Eppure siamo a conoscenza di persone che hanno i sintomi del coronavirus ma a cui non è stato fatto il tampone perché il medico di base gli ha risposto che si fanno solo in caso di insufficienza respiratoria. Queste persone escono dunque a fare la spesa, anche perché nessuno gliela porta a casa.
«Con l'80% dei casi asintomatici o con disturbi leggeri io sono convintissimo che ci siano tante persone che non hanno la più pallida idea di essere infettate.È inevitabile che il virus circoli, altrimenti non saremmo in questa situazione».

Non sarebbe allora meglio fare tamponi?
«Il tampone deve essere mirato, secondo le nostre raccomandazioni sulla casistica clinica, sulla casistica sospetta, e sui contatti».

Dunque non è corretta la procedura attualmente in atto in Italia?
«Mi pare che sia questa. Poi cosa avvenga nelle circostanze locali non lo so».

Potrebbe essere utile, in un caso come quello milanese, la distribuzione

da parte della protezione civile di pacchi alimentari, in modo che la popolazione (che può essere infetta) non debba fare coda nei supermercati rischiando di contagiare cassiere, commessi, clienti?
«È necessario attivare tutte le opzioni che il Paese possiede e si è dato. Come l'assistenza domiciliare integrata, che prevede il supporto ai non autosufficienti, ai fragili e ai vulnerabili definiti in senso specifico dai decreti che si sono succeduti e che hanno disposto l'avvio del servizio già da tempo. Ovviamente i livelli di attivazione e di capacità delle singole regioni è diverso, ma in questo caso credo sia doveroso investire e accompagnare le misure di quarantena domiciliare con tutto ciò che sia necessario. Non si può agire in maniera settoriale in un'emergenza come questa che tocca tutti gli elementi del vivere civile e consociato. E penso che l'intenzione del governo, con i commissariamenti di protezione civile sia proprio questa: tutto il governo è coinvolto sia a livello centrale che regionale e decentrato. In fin dei conti l'autorità sanitaria locale è ancora il sindaco che ha in carico anche la componente sociale, dove non sia stata integrata già nel meccanismo di sistema sanitario regionale (come in Veneto, ad esempio)».

In Cina hanno messo in quarantena le persone negli alberghi, in modo che non infettassero la famiglia. Pensa sia utile farlo anche in Italia?
«In questi casi è probabile che la trasmissione del virus ci sia già stata. L'isolamento a casa dipende molto dalla situazione domestica delle persone. Io preferirei stare a casa, monitorato bene, tramite teleassistenza, che attualmente non viene impiegata abbastanza. Dopodiché la possibilità di isolamento in alberghi o altre strutture dovrebbe essere una possibilità offerta. Altrimenti cosa facciamo, le deportazioni? Certo, se una famiglia di 4 persone vive in 40 metri quadri potrebbe avere un senso».

Guerra sottolinea l'importanza del monitoraggio dei pazienti tenuti a casa: «è una chiave di volta fondamentale perché sappiamo che l'insorgenza di condizioni cliniche deve essere valutata con estrema serietà. Il quadro clinico infatti può decadere molto velocemente, soprattutto nelle persone a rischio. L' insufficienza respiratoria può presentarsi molto rapidamente».

È in programma che l'Oms sviluppi linee guida con criteri precisi per stabilire chi ha accesso alla ventilazione polmonare quando questa non sia disponibile per tutti? Oltretutto è una misura che potrebbe anche aiutare i medici a far fronte a eventuali pressioni esterne nello scegliere un malato piuttosto che un altro.
«A me sembra che il tentativo da parte della sanità italiana sia di provvedere in modo che tutti quanti siano attaccati a un ventilatore quando ne hanno bisogno. C'è uno sforzo eccezionale da parte del governo per procurarli».

Eppure si leggono, anche su riviste scientifiche, dichiarazioni dei medici sul campo, a Bergamo per esempio (pubblicata su «New England Journal of Medicine Catalyst Innovations in Care Delivery»), in cui affermano che alcuni pazienti non possono tentare di salvarli perché non hanno abbastanza ventilatori. E gli anestesisti hanno proposto di dare la priorità a chi ha maggiore probabilità di sopravvivere.
«Credo che questo sia stato smentito abbastanza frequentemente da altri colleghi».

L'assessore lombardo Giulio Gallera ha detto che l'Oms si è congratulato con la Regione Lombardia per il lavoro svolto e che ha chiesto informazioni sul modello da loro sviluppato per gestire la crisi perché serva da esempio ad altri Paesi. Eppure il 7 febbraio il ministero della salute italiano ha diffuso una campagna mediatica in cui si diceva che il nuovo virus non era altamente contagioso e che non era per niente facile essere infettati. Per non parlare della lentezza con cui sono state prese le decisioni per gestire l'emergenza e confinare la popolazione (risale al 31 gennaio il decreto che dichiarava l'emergenza sanitaria, ma ancora oggi mancano tamponi e mascherine e il picco dei contagi non è ancora stato raggiunto, mentre abbiamo il maggior numero di decessi al mondo per Sars-CoV2).

Viene dunque spontaneo chiedersi se non ci sia stato un fraintendimento, e il «modello Italia» di cui parlava l'Oms fosse in realtà proprio un modello da non seguire.
«L'Italia, secondo me ha intrapreso le azioni che erano necessarie. La struttura amministrativa di un Paese è peculiare, i ritardi sono inevitabili».
Peccato però che proprio in una epidemia di questo genere i ritardi hanno causato morti.
«La capacità di comprensione che l'Italia ha avuto è da studiare. E anche se è responsabilità del governo prendere le decisioni, il fatto che questo si sia affidato a un comitato tecnico scientifico che raccoglie le migliori capacità del Paese mi pare sia un altro percorso molto virtuoso che l'Italia ha intrapreso. Gli errori vanno identificati e corretti e credo che il governo lo abbia fatto».

Durante la lunga intervista Guerra ha speso parole critiche solo per l'Europa, che a suo parere non avrebbe seguito le raccomandazioni di coesione dell'Oms, per «una Commissione europea che è stata abbastanza debole nel proporre un'azione comune agli stati membri» e per i Paesi che hanno isolato l'Italia. È stato critico anche nei confronti dei giornalisti, che avrebbero una grande responsabilità in questa crisi per aver male informato la popolazione (forse hanno ascoltato anche loro lo spot del ministero della Salute del 7 febbraio).

L'ultima domanda che riusciamo a fare riguarda il contributo cinese al budget dell'Oms. Guerra ci invita a cercarlo sul sito: 28.719.905 dollari (cresciuto del 51% rispetto al 2019, quando era di 18.948.900 dollari): l'11% del totale, secondo solo agli Stati Uniti.

Per approfondire:
Come si stanno riorganizzando i supermercati
Coronavirus: nasce la app per controllare le file al supermercato
Il business delle mascherine e i laboratori che fanno i test: molte non sono a norma

Riproduzione riservata ©
  • Lara Riccivicecaposervizio curatrice delle pagine di letteratura e poesia

    Luogo: Milano e Ginevra

    Lingue parlate: Inglese e francese correntemente, tedesco scolastico

    Argomenti: Letteratura, poesia, scienza, diritti umani

    Premi: Voltolino, Piazzano, Laigueglia, Quasimodo

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