«Storico? Non direi», si è affrettato a dichiarare il frugale Rutte, per contenere l’enfasi con cui il Presidente del Consiglio europeo Michel aveva accompagnato, alle 5.33 del mattino il suo annuncio: «Deal!», accordo fatto.

Si capisce che il primo ministro olandese minimizzi (si capisce meno se a farlo sono tanti nostri compagni), perché, dopo decenni di lamentazioni contro gli orribili Trattati dell’Unione, senza neppure esser presi sul serio, all’alba di lunedì ne abbiamo finalmente incrinato uno.

Uno dei suoi peggiori principi fondamentali. Quello che gli avari (e poco lungimiranti paesi ricchi) hanno sempre difeso a spada tratta e che è iscritto nell’articolo 123 del Tfue (Trattato sul funzionamento dell’Unione ) varato a Lisbona nel 2009, quando era naufragata l’idea di dotare l’Unione di una Costituzione e dunque l’ipotesi che dovesse trattarsi di una comunità solidale, non solo di un mercato in cui ciascuno cerca di essere più competitivo dell’altro.

E cioè il famoso no bail out, il divieto ad ogni stato membro, di tirar fuori dai pasticci un altro in difficoltà. In Italia diremmo: «cavoli vostri» ( o peggio).

L’ultimo tentativo di modificare il divieto era stato fatto dalla Francia nel 2008, proponendo un Fondo di garanzia di 300 miliardi di euro per i paesi in difficoltà e respinto dalla Germania. Il paese che oggi ha invece sostenuto la richiesta del Recovery Fund avanzata soprattutto dai meridionali, l’inedita ma assai importante alleanza fra Italia, Spagna e Portogallo.

Un consenso che non deriva da una conversione etica della signora Merkel, ma dalla sua intelligenza: ha capito che l’economia europea è ormai così interconnessa al punto che per ogni prodotto ce n’è un pezzetto (una valvola, una batteria, una vite) che viene fabbricato in un paese diverso; e che dunque la catastrofe economica di uno bloccherebbe la produzione dell’altro.

Sarebbe utile ripercorrere la storia di questa vicenda per capire perché l’accordo di Bruxelles rappresenta una svolta. State tranquilli, non lo farò, ma solo perché non c’è spazio, visto che sarebbe bene conoscerla per capire meglio la sua portata.

Basti dire che già nel 2008, quando scoppiò la grande crisi, ci si rese conto che servivano strumenti nuovi per farvi fronte perché il default di uno degli stati membri dell’Eurozona avrebbe messo nei guai l’intera area della moneta unica.

Ma quanto si fece è stato produrre una frettolosa e insensata valanga di atti amministrativi d’emergenza, tutti sottratti a qualsiasi controllo democratico, negando ogni solidarietà ai propri partner, subordinando ogni prestito ai paesi maggiormente in crisi alla loro accettazione delle drammatiche politiche di austerità che conosciamo. Così come all’accettazione dei più tremendi organismi di sorveglianza: Troika, Six e Two Pact, Efsf, Mes, Fiscal Pact, veri poliziotti incaricati di far rispettare un arbitrario codice di condotta, stabilito per avere, nel 2020, come è scritto un’Europa «smart, substainable, inclusive, growing»!

Prestiti esosi, dunque, concessi in nome del miope egoismo dei più ricchi, preoccupati solo di conservare il diritto di infischiarsene degli altri, di conservare il famoso no bail out.

Basti solo pensare che il più illuminato Mario Draghi per ottenere il permesso per la Bce di fare qualche cosa che ne attenuasse la rigidità, ha dovuto introdurre il quantitative easing, e cioè la assai indiretta misura dell’acquisto di buoni del tesoro indeboliti per rivitalizzare un po’ i mercati dei più in difficoltà, ma pur sempre impossibilitato a fornire fondi agli stati affinché investissero per rianimare davvero la loro economia.

Adesso tutto è cambiato? No, naturalmente.

Anche questo «deal» è fragile e certo non privo di rischi. Ma per la prima volta in 63 anni è stato riconosciuto che l’Unione europea è una comunità politica che assume il dovere di usare parte – 390 miliardi – del proprio bilancio comune per aiutare, senza obbligo di restituzione e alla sola condizione (sacrosanta) di usare questo danaro per il riavvio dell’economia ( e non per pagare vecchi debiti), di cui almeno il 30% per la svolta green.

E senza che sia possibile a Rutte&Co. di usare il loro veto per rimettere in discussione la decisione.

I soldi sono troppo pochi? La novità politica non è ancora iscritta in una vera Costituzione che non c’è? Sì, certo.

Ma la questione è un’altra: avremmo potuto ottenere di più dopo decenni in cui si è lasciato il campo, quando si parla dell’Ue, agli assalti dei leghisti, delegando a un certo numero di ripetitivi convegni su come dovrebbe essere l’Europa il compito di cambiarla, per il resto infischiandosene di costruire, nella società europea, una forza realmente capace di cambiarla?

Posso ricordare per l’ennesima volta senza che vi infastidisca, che l’interesse della sinistra per la questione è tale che alle grandi decisioni sui Trattati e alle peggiori misure adottate il nostro parlamento ha sempre dedicato non più di un pomeriggio e una mattina di discussione, i nostri giornali un trafiletto; che non siamo ancora mai riusciti a animare una vera vertenza europea, ogni sindacato e ogni organizzazione di ogni paese mai seriamente tentato di accordarsi con i partner oltre la propria frontiera.

Chissà che questa vicenda non riesca a cambiarci!