Le guerre in presenza di impianti nucleari sono un nuovo rischio per la sicurezza

C’è una coincidenza non casuale tra gli Stati che si sono dotati dell’arma atomica e la presenza sul proprio territorio di reattori nucleari civili: il ciclo dell’uranio militare è integrato col funzionamento di centrali in cui la fissione è tenuta sotto controllo con le apparecchiature e i software più sofisticati per ridurre il rischio di incidenti catastrofici. Militare e civile si sono sviluppati di pari passo in tempo di pace, ma in tempi di guerra permanente, il rilancio del nucleare civile deve prendere in considerazione risvolti che già si sono rivelati inquietanti.

Nessuna delle potenze in campo nella “guerra grande” potrebbe impunemente annunciare di voler risolvere lo scontro con il ricorso all’impiego dell’ordigno nucleare. Anche se tra di loro la sola Cina esclude l’uso del “first strike” – un “primo colpo” – con un attacco preventivo e a sorpresa con l’impiego dell’atomica, è pur vero che sia in Ucraina che in Israele e Iran esistono grandi impianti nucleari civili, la cui fusione e dispersione catastrofica potrebbe essere provocata da un loro bombardamento con potenti e mirate armi convenzionali. Un first strike dissimulato, a cui seguirebbe una risposta annientatrice su scala globale: un Armadeggon imprevisto.

Ira Helfand, noto medico antinuclearista dell’Università del Massachusetts, ritiene che più volte il Pentagono abbia simulato l’uso di armi nucleari tattiche per innescare a sorpresa una guerra nucleare, che finirebbe col risultare totale e che un procedimento simile sia stato preso in conto anche dai comandi russi e dal gabinetto di guerra di Netanyahu, oltre che dall’Iran. Mai, come nella fase attuale, siamo stati vicini a questa spaventosa eventualità, ma, per buona sorte, abbiamo solo sfiorato ipotesi tanto esiziali per l’umanità.

Eppure, nella constatazione che le guerre in corso non possano finire con la vittoria assoluta di una parte e l’annientamento dell’altra, sta prendendo piede la tentazione di agitare in modo indiretto la minaccia atomica, attraverso una pressione inusitata sui reattori e gli impianti civili, portandoci, alla fine, dentro vicoli ciechi strategici, che avrebbero egualmente, come conseguenza, l’innesco di uno scambio di testate nucleari in un conflitto globale.

Ho trattato nel post precedente all’attuale la questione degli insensati attacchi – attribuiti ora all’una ora all’altra parte in conflitto – alla centrale ucraina di Zaporizhzhia, la più potente nel nostro continente. Pur non essendo più in funzione i suoi sei reattori, tutta l’enorme carica di materiale radioattivo contenuto nei noccioli e nei depositi potrebbe essere rilasciata e dispersa a seguito del lancio di potenti testate montate su droni o bombardamenti penetranti con esplosivo tradizionale.

E’ la prima volta nella storia che una guerra con armi avanzatissime si sta svolgendo in presenza di impianti e infrastrutture nucleari, ponendoci di fronte ad un nuovo tipo di rischio per la sicurezza. Nelle ultime settimane le strutture ausiliarie della centrale sono state colpite e, se anche a partire dal 13 aprile, tutti e sei i reattori erano in arresto a freddo, c’è ancora la possibilità di un grave incidente dovuto ad un sabotaggio intenzionale volto a causare un rilascio radioattivo. Questo è il grido d’allarme lanciato all’Onu dal segretario dell’Aiea Daniel Grossi.

L’analogia con Chernobyl è tutt’altro che campata in aria: anzi, date le condizioni feroci di combattimento, l’inadeguatezza dei soccorsi farebbe paradossalmente parte – da qualunque dei due confliggenti fosse innescata – di un’azione della più atroce guerra nucleare, e costituirebbe la premessa per un “first strike” dissimulato. Non accadrà, ma non viviamo in un’epoca usuale.

Anche nell’altra “guerra grande” in corso in Medio Oriente, l’attacco israeliano a Isfahan – sede di impianti nucleari iraniani – per quanto a livello dimostrativo, ma assai allusivo nel suo significato, segnala una strategia bellica che non avevamo mai messo in conto come aspetto ordinario: minacciare un incidente ad un sito nucleare, con tutto il corollario di accessori attinenti al ciclo di arricchimento del materiale fissile.

Ciò comporterebbe effetti terribili, in quanto aumenterebbe considerevolmente la probabilità di una risposta di ritorsione da parte di Teheran, che colpirebbe luoghi sensibili nel territorio israeliano, possibilmente estendendosi agli interessi americani e giordani nella regione, oltre a fornire agli ayatollah la motivazione per progredire verso lo sviluppo di bombe atomiche.

Non possiamo dimenticare che la densità energetica di cui sono dotati i reattori civili, sebbene adeguatamente moderati durante il loro funzionamento e controllati lungo il loro ciclo di vita, è di un ordine di grandezza non molto inferiore da quello delle testate nucleari e che, se venisse sprigionata simultaneamente in un’azione di guerra, innescherebbe un effetto catastrofico.

A maggior ragione, quindi, e a partire da queste realtà sotto i nostri occhi, evapora definitivamente il concetto di “guerra giusta”, dato che il suo esito concreto risulterebbe nell’annientamento non tanto del nemico, ma, anche a seguito di inevitabili ritorsioni, dell’esistenza su larga scala dell’intero vivente. Nessuno può plausibilmente trarre utilità o ottenere alcun vantaggio militare o politico da attacchi contro gli impianti nucleari: solo una de-escalation di fatto e per via diplomatica può tener testa al pericolo che incombe.

Come si giustifica allora l’invio di armi sempre più potenti e precise ai contendenti “amici” da parte di un Occidente che mantiene pressoché secretate centinaia di testate perfino a Ghedi e Aviano? E come potrebbe la Russia pretendere di riavviare per sé la centrale nucleare ucraina di Zaporizhzhia, resa insicura dalle azioni di guerra e di conquista, senza un piano di manutenzione per il 2024 e, per di più, minata dalla mancanza di acqua di raffreddamento del bacino idrico ormai esaurito posto dietro la diga di Kakhovka sfondata a colpi di mortaio?

Ali Alkis sul Bulletin of the Atomic Scientists (newsletter@thebulletin.org del 17 aprile) lamenta che l’Aiea terrà la sua Conferenza internazionale sulla sicurezza nucleare a maggio per rilanciare il “nuovo nucleare civile”, ma non dedicherà nemmeno una sessione alla protezione degli impianti nucleari nelle zone di conflitto! Non una dimenticanza, ma, temo, un’azione altamente imprevidente.

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Zaporizhzhia come obiettivo militare: qual è la situazione e cosa si rischia coi continui blackout

Viviamo nell’Antropocene: un’era recente, non ancora abbastanza assimilata nella consapevolezza comune, in cui la società umana è scossa da eventi dei quali è protagonista attiva, nonostante mettano in discussione la sua integrità, la continuità, della sua storia, se non, addirittura, la sua sopravvivenza.
L’incontrollabilità di tecnologie che, quando si scatenano, sfuggono al controllo democratico e sociale, è diventato un problema tragico della nostra era. In queste ore rimaniamo scossi dalla tragedia di Suviana, ma ad ogni imprevisto stentiamo a cercare risposta. Sembra che l’artificiale sfugga di mano all’umano.

Qui provo ad esaminare un caso particolare – utilizzando molte fonti di informazione – da Euronews ad Indipendent, ad Al Jazeera, al Guardian – in cui la follia della guerra, assieme all’insistenza a protrarla con l’invio di armi sempre più sofisticate e sempre più deflagranti, trova un punto di svolta drammatico nel bombardamento della centrale di Zaporizhzhia. Le versioni propagandistiche delle due parti in conflitto, che si accusano a vicenda del lancio di ordigni, non limitano certo il pericolo imminente di un disastro incalcolabile, tutt’altro che irripetibile.

Zaporizhzhia non è solo la centrale più potente di Europa, ma può diventare l’Hiroshima del nuovo millennio, confermando la tragica continuità tra il nucleare civile e quello militare. Il pericolo di una catastrofe si era già avvicinato un anno fa, quando il bacino della centrale idroelettrica di Kakhovka, con l’abbattimento della diga di contenimento, era sceso al livello più basso degli ultimi tre decenni, mettendo a rischio le risorse di irrigazione e acqua potabile, nonché i sistemi di raffreddamento della vicina centrale nucleare di Zaporizhzhia.

Già quell’episodio, che ancora non riguardava l’atomo, rappresentava il più grande ecocidio in Ucraina, con migliaia di specie travolte dalla breccia nella diga che, oltre a contaminare le riserve idriche, ha distrutto centinaia di specie animali e vegetali rare, oltre che ad aver costretto migliaia di persone a evacuare l’area che si trova sul suo corso a valle. La regione allagata ospitava una quantità significativa di foreste e riserve, come la Riserva della Biosfera del Mar Nero, che nutre migliaia di specie, e il deserto di Oleshky Sands, colpiti dalle inondazioni, con il rischio di estinzione globale di specie animali, fungine e vegetali, oltre che di distruzione delle residenze di uccelli migratori.

L’Ucraina ha 15 centrali nucleari e nella sua storia c’è il dramma di Chernobyl del 1986, tuttora vivido e irrisolto, ma è Zaporizhzhia ad essere focalizzata, attirando oggi l’attenzione più inquietante. Nonostante gli appelli dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, giungono quotidianamente notizie di attacchi nella regione. Intervistato da Euronews, un ex capo dell’AIEA ritiene che oggi siamo più esposti al pericolo che nel 1986. Una situazione per certi versi peggiore, perché si tratterebbe di un attacco intenzionale, provocato e calcolato dall’uomo: è infatti molto difficile proteggere una centrale nucleare se munizioni o missili colpiscono il posto sbagliato.

Già all’inizio dell’invasione le truppe russe presero il controllo della struttura di Zaporizhzhia. Tuttavia, l’impianto ha continuato ad essere gestito da lavoratori ucraini, mentre veniva ripetutamente messa fuori uso la rete elettrica nazionale, provocando blackout nella stessa centrale nucleare dove è necessaria una fornitura di energia costante per evitare il surriscaldamento dei reattori.

Dopo mesi di insicurezza, nel settembre 2022, l’ultimo reattore è stato spento. L’impianto è entrato quindi in un’altra fase operativa, meno delicata, ma non per questo meno pericolosa. “In realtà la situazione sta peggiorando – scrive il rapporto di Grossi, direttore dell’IAEA – a Zaporizhzhia è presente solo circa un quarto del personale addetto alla manutenzione, del tutto insufficiente perché le centrali nucleari hanno un sistema di conservazione regolare, ispezioni regolari e controlli di sicurezza delle autorità: il che significa che l’impianto si sta deteriorando con il passare del tempo”. Mancano i pezzi di ricambio e questo può avere conseguenze che sono imprevedibili e possono portare al rilascio di radioattività anche a reattori spenti.

Entrambi i nemici affermano di gestire l’impianto, quindi non ci si aspetterebbe che lo considerino un obiettivo militare, ma il sito in sé nell’ultimo mese sembra essere stato deliberatamente preso di mira dai bombardamenti. Per ora si tratta di bombardamenti che hanno luogo intorno all’impianto e ci sono stati uno o due casi in cui un proiettile ha colpito alcune parti del sito. I reattori hanno muri di cemento spessi un metro e rivestimento in acciaio. Quindi sono edifici molto robusti, con una protezione che dovrebbe essere sufficiente per un tipo di impatti accidentali che non sono diretti deliberatamente. Ma se lo fossero? Se, cioè fossero obbiettivi di guerra?

Il 9 marzo, l’impianto è andato in blackout per la sesta volta dall’occupazione, costringendo gli ingegneri nucleari a passare ai generatori diesel di emergenza per alimentare le apparecchiature di raffreddamento essenziali. “Ogni volta lanciamo un dado – avverte Rafael Mariano Grossi – e se permettiamo che ciò continui di volta in volta, allora un giorno, la nostra fortuna finirà”. Per questo è indispensabile una zona di sicurezza intorno alla centrale nucleare.

A fine febbraio, è stato chiuso anche il collegamento all’ultima linea elettrica di riserva, che rende ancora più fragile la situazione della sicurezza nel sito.
Rosatom, l’impresa russa che ha preso l’impianto sotto la sua giurisdizione, dichiara che la causa della disconnessione non è stata immediatamente nota, aggiungendo di essere stata informata dall’operatore di rete ucraino che i lavori sulla linea erano in corso. Una imprevidenza o una azione militare inconsulta? Qualsiasi interruzione di corrente o danni alle linee elettriche può minacciare i reattori altamente reattivi e le loro altre funzioni essenziali, che hanno bisogno di elettricità per raffreddarsi, anche quando risultano spenti.

In origine l’impianto aveva a disposizione quattro linee da 750 kV e sei linee da 330 kV per mantenere in funzione l’erogazione di energia da nucleare. Quindi non ci sono più opzioni di backup per l’alimentazione off-site e ciò significa che i sei reattori VVER-1000 V-320 raffreddati ad acqua e moderati ad acqua contenenti uranio-235, oltre al combustibile nucleare esaurito, potrebbero essere un bersaglio spaventosamente vulnerabile. Rosatom accusa Kyev per un lancio di un drone sulla cupola di un reattore e il ferimento di tre operai nella mensa dell’impianto, mentre Zelensky ha sottolineato che gli attacchi russi continuano incessanti su Zaporizhia.

Non siamo più solo all’atrocità della guerra e allo scambio di accuse tra contendenti: siamo di fronte ad una delle molte questioni esemplari ed esiziali del tempo in cui viviamo. Occorre porre fine a questo terrore e allontanare dal nostro mondo l’illusione che la parola “vittoria” abbia ancora senso quando si tratta delle emergenze dell’Antropocene. Che andrebbero affrontate con la visione che solo un sofferente papa Francesco ha saputo anticipare, in solitudine tra i leader mondiali distanti dai loro popoli.

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L’Enel di Civitavecchia rallenta sulla transizione e i lavoratori scioperano: le parole non bastano

di Mario Agostinelli e Mauro Mei

L’8 marzo 2024, i lavoratori elettrici di Enel hanno incrociato le braccia in una mobilitazione promossa dalle categorie sindacali nazionali di Cgil, Cisl e Uil. L’iniziativa esprime preoccupazione per la direzione che sta prendendo l’azienda energetica italiana. Dopo la gestione dell’ad Starace, proiettata verso il nuovo paradigma energetico per affrontare la crisi climatica e raggiungere gli obbiettivi di riduzione delle emissioni definite dal Green Deal europeo, il nuovo gruppo dirigente di Enel ha subito dato segni di minore autonomia rispetto ai grandi interessi ereditati dai potentati dell’era fossile ed ha rivolto la sua attenzione alla speculazione finanziaria e – come dice il comunicato di Cgil, Cisl e Uil nazionali – rischia di non “rimanere un motore essenziale nella giusta transizione energetica del paese, tradendo la vocazione industriale che da sempre ha contraddistinto l’azienda”. E’ infatti in corso un progetto di ridimensionamento che ha sollevato preoccupazioni tra le lavoratrici ed i lavoratori.

I sindacati criticano i tagli del personale e l’esternalizzazione di alcuni servizi, specialmente nella distribuzione, mettendo a rischio la continuità del servizio elettrico nelle case degli italiani, giorno dopo giorno. Assai significativa, tra le motivazioni della mobilitazione che ha già avuto precedenti momenti di rilievo, è la contrarietà alla riduzione degli investimenti nelle fonti rinnovabili che avevano aperto solide aspettative nel periodo più recente della gestione dell’Ente.

Siamo nella fase di “Phase -out” dal carbone e di sempre maggiore urgenza nell’adeguare il sistema centralizzato di produzione elettrica alla riconversione territoriale, cui concorrono le fonti rinnovabili, diverse forme necessarie di stoccaggio, forme di compartecipazione che riducano i consumi e contengano i costi in bolletta. Per Brindisi e Civitavecchia si tratta di garanzie di occupazione nel cambio strutturale dei sistemi che hanno alimentato fino ad ora i due poli.

L’astensione dal lavoro è risultata massiccia e, in particolare a Civitavecchia, lo sciopero davanti ai cancelli di Torre Valdaliga Nord ha avuto larga risonanza e solidarietà tra la popolazione da tempo impegnata alla trasformazione da una centrale a carbone ad un avanzato sistema eolico-offshore a 30 Km dalla costa. Il nuovo progetto è al vaglio con la piena convergenza di tutte le forze politiche e sociali: registriamo al riguardo la riuscita di un convegno partecipatissimo lo scorso 14 marzo a conferma del progetto da fonti rinnovabili ed un comunicato del Pd a sostegno della lotta aperta anche dai lavoratori dell’indotto per il loro futuro. (v. telegiornale locale dal min.7).

Il ministro Pichetto ha cercato di rassicurare: “Io sono determinato a dire che noi chiudiamo Civitavecchia e Brindisi il prima possibile. E’ chiaro che la chiusura deve vedere da parte della proprietà un impegno di riconversione, rioccupazione e gestione di un trapasso che dobbiamo portare avanti a che va gestito anche con le autorità locali e il diritto sindacale di porre le questioni di merito sul lavoro”. Ma le parole non bastano certo. La città e le rappresentanze sindacali e politiche pretendono dall’Enel risposte chiare e non dilatorie, preoccupata dall’assenza di progettualità e di un confronto serrato con l’ente elettrico, impegnato in una vertenza generale cui si sta sottraendo, nonostante la conversione energetica debba avere tra gli attori protagonisti l’Enel stessa, che ancora non si è impegnata in compartecipazioni indispensabili, come la definizione e costruzione di sistemi di accumulo e l’integrazione dell’alimentazione elettrica dell’area portuale.

Lavoratrici e lavoratori e la cittadinanza tutta attendono risposte adeguate da chi ha mantenuto una servitù prolungata su un territorio generoso, che ora attende realistiche misure per un futuro più salubre e foriero di buona e stabile occupazione.

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Lo sviluppo sottotraccia dei piccoli reattori nucleari ha l’apparenza di una chiamata alle armi

Sulla transizione energetica il nostro governo procede per annunci, spesso contradditori e quasi sempre proiettati in decenni successivi alle scadenze cui saremmo chiamati a rispondere riducendo l’impatto climatico del nostro sistema. Che si tratti della fusione nucleare con cui imitare il sole o del piano Mattei con cui ricolonizzare il sud del Mediterraneo, o infine dell’”hub europeo” creato per raccattare e sequestrare la CO2 emessa dai residui turbogas rimasti in Europa, non c’è proposta di politica energetica che ci abbia riabilitati come diligenti esecutori del Green Deal Ue.

Adesso, però, rientriamo volentieri nell’alveo della “ritirata” di Ursula Von der Leyen, timorosa di essere danneggiata dalla “frenesia verde” (secondo la “grammatica” di Vox, Fpoe, Fidesz e Afd) che l’aveva fatta conoscere come alfiere delle rinnovabili, invise alle destre europee in crescita nei sondaggi e, insieme, oppositrici di qualsivoglia inclinazione ecologista.

Così sta prendendo piede, con un protagonismo italo-francese, una tacita rinascita dell’atomo attraverso un consorzio europeo di rilancio del nucleare a cui la Commissione Europea non sembra insensibile. E come sfuggire a questa occasione, che il ministro Pichetto Fratin definisce “nuovo nucleare pulito, fatto di piccoli reattori nucleari sparsi per il territorio” e tanto allettanti da far dimenticare l’enorme mole di controindicazioni che provengono ormai da decine di anni di studi scientifici, oltre che da spaventosi incidenti nelle centrali esistenti e dall’esito di due referendum popolari? Insomma: qualsiasi soluzione, purché, in una penisola ricca di sole, di bacini di stoccaggio e di vento che spira sui mari che la contornano, si lasci a languire la riconversione della seconda manifattura d’Europa verso il sistema delle energie rinnovabili.

Dopo l’insediamento di una commissione nazionale per lo sviluppo di piccoli reattori nucleari (SMR), il Ministro del Mase ad inizio febbraio, come racconta La Stampa dell’8 febbraio 2024, ha incontrato i vertici di Ansaldo Nucleare per affidare loro un ruolo da primattore nell’alleanza europea, che si avvarrà del know-how e delle competenze tecnologiche dell’impresa, che aveva contribuito in maniera determinante alla creazione del consorzio. Infatti, il Gruppo Ansaldo Energia ha firmato negli ultimi mesi accordi strategici per la cooperazione specifica nella costruzione di Smr di diverse tipologie in collaborazione con Edf, Edison, Westinghouse e altri attori internazionali.

Vale la pena a questo punto di inquadrare lo sviluppo (quasi sottotraccia) di questa nuova tecnologia che ha tutta l’apparenza di una chiamata alle armi. E la ragione di tanto interesse sta nelle speranze di nuova crescita che sono affidate allo sviluppo impetuoso dell’Intelligenza Artificiale (Ia). In effetti, nella prospettiva di una rivalutazione del nucleare diffuso di piccola taglia, lo sviluppo dell’Ia ha un ruolo rilevantissimo, in quanto questi reattori minori (attorno ai 400 MW) assicurerebbero la fornitura di elettricità 24 ore su 24 e 7 giorni su 7 agli innumerevoli data center in cui vengono conservati i cloud con i big data e vengono alimentati i chip di ultimissima generazione. I consumi di energia per l’Ia sono stati finora trascurati, ma l’aumento medio per l’elaborazione e il raffreddamento dei sistemi ad apprendimento automatico è valutato dell’odine del 43% rispetto agli analoghi sistemi di computazione tradizionale.

Ad oggi si stima che i data center consumino tra l’1 e il 2% dell’elettricità mondiale, ma l’ascesa di strumenti come ChatGpt innesca già previsioni del consumo energetico globale che potrebbe aumentare di cinque volte. Secondo Carlos Gómez Rodríguez, professore di Informatica e Intelligenza Artificiale presso l’Università di La Coruña: “L’Ia generativa produce più emissioni dei normali motori di ricerca, che pure consumano molta energia perché, dopotutto, sono sistemi complessi che si tuffano in milioni di pagine web. Ma – continua Carlos – l’intelligenza artificiale genera ancora più emissioni, perché utilizza architetture basate su reti neurali, con milioni di parametri che devono essere per lunghi tempi addestrati”.

Nel panorama attuale l’intelligenza Artificiale è considerata la strategia decisiva per la quarta rivoluzione industriale e per la potenza delle forze armate. I data center delle compagnie di informatica potrebbero diventare un segmento di mercato significativo a livello globale per gli Smr nei prossimi decenni e non a caso sono oggetto di ricerca e di prototipizzazione da parte anche delle imprese leader dell’informatica proprietaria, in particolar modo negli Usa, in Inghilterra, Belgio, Taiwan e Giappone.

Già in un post precedente ho posto la questione della novità di una diffusione pervasiva di scorie nucleari sul territorio: analogamente a quanto è avvenuto nel settore chimico, dovremmo fare i conti con un controllo altrettanto capillare, con una variante di tossicità e di militarizzazione impressionante. Peraltro, in uno studio della Stanford University intitolato Nuclear waste from small modular reactors, la gestione e lo smaltimento dei flussi di rifiuti nucleari prodotti dagli Smr rivelano che i progetti Smr, comparati con i Pwr a scala di gigawatt, aumenteranno i volumi equivalenti dei rifiuti nucleari, che necessitano di gestione e smaltimento, con il volume dei rifiuti ad alta attività che aumenterà addirittura di un fattore 30. E poiché le proprietà del flusso di rifiuti sono influenzate dalla fuoriuscita di neutroni dal nocciolo ridotto, gli Smr aggraveranno anche le problematiche legate allo smaltimento degli impianti a fine corsa.

Is+Smr: l’ennesima formula per mantenere la crescita. Che ne sarà del clima, della democrazia e della giustizia sociale?

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Nel Piano Mattei avanti tutta col gas. Sull’energia pulita invece niente si muove

Come temevamo, il “Piano Mattei” è uno specchio per le allodole: ci fa sentire generosi espropriatori di risorse di paesi poveri, mentre si dà copertura ad una transizione energetica “che puzza ancora di gas”. Così, infatti l’hanno subito intesa Wwf, Legambiente, Kyoto Club e Greenpeace che sono uscite con un durissimo comunicato stampa consegnato All’Ansa il 30 gennaio. “Se la Presidente non lo ha esplicitamente nominato, in realtà è molto chiaro che nel Piano Mattei le rinnovabili non sono protagoniste, protagonista è ancora il gas, insieme ai disegni di Eni sui biocarburanti”.

E’ sempre più evidente il gioco, partito con Cingolani e poi ribadito in più sofisticate versioni da Pichetto Fratin e da Giorgia Meloni: dilazionare il più possibile nel tempo l’installazione di energia pulita, in attesa di progressi irrealistici delle tecnologie nucleari, sopperiti, alla bisogna, da nuovi rigassificatori, sparsi lungo le coste italiane e riforniti di metano d’oltre Mediterraneo. L’idea di trasformare la penisola in un hub energetico e di sequestro della CO2 attraverso una collaborazione che passa dall’Africa e dalle fonti inquinanti, rischia di compromettere definitivamente gli impegni per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C. Ma il discorso si fa ancora più insidioso se si riflette che il traguardo di una tanto incomprensibile insipienza in realtà punti a mantenere una struttura centralizzata del nostro sistema energetico, nelle mani delle lobby i cui Consigli di amministrazione discendono dallo spoil system che Giorgia maneggia con disinvoltura. Un ritardo così anomalo e insistito nel cambio di paradigma energetico finirebbe quindi col penetrare a tal punto nella cultura dei cittadini da scoraggiarli dal ricorso alle energie rinnovabili locali.

Proprio in questi giorni è uscito il decreto di lancio delle comunità energetiche, che risulta pasticciato e, ad ora, penalizzante per chi ha già messo mano a progetti e impianti in cooperazione. E fa impressione che nel 2023, nonostante la misura del 110%, la produzione di elettricità più diffusa tra le rinnovabili (il fotovoltaico per lo più installato motu proprio da cittadini privati) ha coperto solo il 10% della domanda elettrica nazionale, a fronte dell’obbiettivo di superare almeno il 43% di produzione lorda da Fer elettriche al 2030. Non si intravvede all’orizzonte un vero sostegno alle rinnovabili, sebbene esse rimangano una delle rare filiere di nuova occupazione e di lavoro qualificato.

Sembra che il dramma dell’Ilva non abbia insegnato alcunché. Mentre i rigassificatori galleggianti di Piombino e Ravenna sono stati autorizzati in nemmeno sei mesi, il decreto Energia deve ancora definire la realizzazione di approdi a mare da utilizzare per il montaggio delle pale eoliche galleggianti. Si tratta di porti già praticati e espandibili, come quello di Civitavecchia, dove è stato preventivato uno stanziamento di due miliardi di euro da una società mista italo-danese che ha presentato un progetto di eolico off-shore per 540 MW, a 30 Km dalla costa.

Poiché entro il 2025 verrà attuato il phase out dal carbone che oggi alimenta la centrale, dovrebbe essere consentito l’assemblaggio delle turbine in porto e, poi, il loro traino al largo, mantenendo ed anzi accrescendo l’occupazione dell’attuale impianto fossile e del suo indotto. Ma, anche qui, tutto sembra fermo.

Quando si pensa che l’eolico offshore in Europa gode di ottime prospettive di crescita – nel 2023 nella Ue sono stati installati 4,2 GW di nuova potenza, un record, con una crescita del 40% rispetto all’anno precedente – fa meraviglia che da noi, anche laddove le amministrazioni locali e i cittadini si sono battuti per progetti compatibili col loro territorio, la politica non decida per iniziative industriali che favoriscano la conversione energetica a vantaggio del clima.

La costruzione di un “retroterra” adatto offrirebbe la possibilità di avere a riferimento tutto il bacino del Mediterraneo. Tuttavia, il nostro Paese non dà cenni nemmeno per quanto riguarda la catena di fornitura, che registra invece nuovi stabilimenti produttivi in Polonia, Danimarca, Germania, Paesi Bassi e Spagna. Eppure, nel decreto Fer 2 sono previsti 3,8 GW come contingenti totali di potenza disponibili tra il 2024 e il 2028. Acquisteremo tutto da fuori, oppure non ne faremo nulla? Forse si vuole traccheggiare per arrivare al 2025 senza alternative, così da chiedere una proroga alla chiusura della centrale a carbone per “motivi occupazionali” e far sì che quegli stessi operai, che hanno scioperato per abbandonare i fossili, siano strumentalizzati magari per qualche sbocco nefasto dissimulato tra i progetti non certo virtuosi del tutt’ora misterioso “piano Mattei”.

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